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martedì 19 marzo 2024

RACCOLTE & PAESAGGI — il Blog di Marco Celati

Marco Celati

MARCO CELATI vive e lavora in Valdera. Ama scrivere e dipingere e si definisce così: “Non sono un poeta, ma solo uno che scrive poesie. Non sono nemmeno uno scrittore, ma solo uno che scrive”.

Erodoto e Tucidide

di Marco Celati - domenica 20 febbraio 2022 ore 07:30

Tucidide
Tucidide

Dove eravamo rimasti? Come disse nel 1987, tornando in televisione dopo l’ingiusta carcerazione per l’infame accusa di droga, il compianto Enzo Tortora. Che a me risultava antipatico. Ma se dovessero arrestare tutte le persone antipatiche – dal greco, di avversa passione – le patrie galere straboccherebbero più di quanto non strabocchino già ora. E io forse sarei il primo degli indagati e condannati. E poi chi decide dell’antipatia, della simpatia o dell’empatia? Bisognerebbe interpellare davvero un grecista. Io sono qui, ma non è il mio campo. Vi ricordate? Sono Erodoto di Alicarnasso, “padre della storia”. Questo è il mio campo. Eravamo rimasti a Tucidide, per fare un confronto fra concezioni storiografiche diverse: io “affabulatore”, lui “scientifico”. Ci sono queste contrapposte dualità nel corso della storia. È come fra Coppi e Bartali, Mazzinghi e Benvenuti. Potremmo fare paragoni più aulici, ma è per intendersi. Perché so queste cose? Perché sono morto secoli fa, ma la mia anima di storico vive. E uno storico rimane sempre uno storico: uno che registra gli eventi e ne fa storia. In qualche modo.

Tucidide era del 460 a.C, più giovane di me di 24 anni, una generazione successiva, e questo incide. Nacque dalla nobile famiglia dei Filaidi nel demo, di Alimunte, sulla costa sud di Atene, a 35 stadi dalla capitale. Il demo era una suddivisione amministrativa del territorio e della popolazione e uno stadio erano 600 piedi, nel sistema attico 177,60 metri. Quindi 6 chilometri e 216 metri da Atene, per non farla troppo lunga ed esoterica. La famiglia era imparentata con Milziade, quello di cui vi ho parlato nella puntata precedente, che guidò i greci nella vittoriosa battaglia di Maratona e vantava una discendenza addirittura dal Pelìde Achille, la cui “ira funesta infiniti addusse lutti agli Achei”, eccetera, eccetera. Ricordate Omero, l’Iliade? Che tempi! Ma non divaghiamo. Tucidide, sostenitore di Pericle, fu stratega della flotta di Atene nella guerra contro Sparta, nel mar Egeo settentrionale. Quindi fu uno storico, un letterato, ma anche un militare. E pure questo incide. Uno storico militante, potremmo dire.

Tra l’altro fu accusato, ahinoi, di tradimento per il fallimento della spedizione di soccorso nella battaglia di Anfipoli, vinta dagli spartani e fu cacciato da Atene o fu lui a scegliere l’esilio in Tracia, dove pare abbia trascorso ben 20 anni. Altre fonti ed altri storici, anche del vostro tempo, dicono invece che rimase ad Atene restando escluso dalla vita politica o, addirittura, che avrebbe partecipato nel 411 al colpo di stato oligarchico e poi si sia ritirato in Tracia, frequentando la corte del re Macedone Archelao I a Pella, insieme ad altri fuoriusciti, come il drammaturgo Euripide. Comunque non tutto il male vien per nuocere e durante questi lunghi anni, lontano dalla polis – a cui è sempre bene partecipare, ma da cui a volte non è male prendersi qualche distanza – si dedicò alla sua complessa e sofferta opera “La guerra del Peloponneso”, composta da otto libri. Un resoconto analitico e cronologico del conflitto che oppose tra il 431 e il 404 a.C. Sparta ad Atene, e viceversa, le due massime potenze greche in competizione per il predominio sulle poleis, le città-stato dell’antica Grecia.

Lo storico per Tucidide ha il compito di fornire a chi partecipa e dirige la vita politica gli strumenti per interpretare il presente e prevedere, per quanto possibile, lo sviluppo futuro. Senza interpretazioni mitiche dei sogni e senza confidare o temere, senza mettere in conto qualche trascendente intervento divino. E ciò si può fare attraverso la conoscenza della storia perché nella storia c’è una costante: la physis, la natura, che determina il comportamento sociale degli uomini, della comunità. Tucidide era un osservatore della psiche umana e seguace della concezione ippocratica della medicina. Oggi potreste parlare di scienza, scienze sociali e scienze politiche. E mica pizza e fichi!

La natura umana tende verso un desiderio inesauribile di accrescimento. Questa, la sua caratteristica principale. A quei tempi il tema non era certo quello della decrescita felice. La tendenza naturale ad aumentare la potenza della società umana organizzata politicamente non può essere limitata né contrastata, se non da una forza uguale e contraria. Perciò Sparta e Atene tenderanno ad accrescere la loro forza per entrare inevitabilmente in conflitto. A quel punto non esistono altri esiti: lo scontro tra opposti rapporti di forza porta ad una guerra di annientamento. Transitori e inutili saranno i tentativi di convivenza, alleanza o pace. E questa, secondo Tucidide, è la ragione della guerra del Peloponneso. Due centri di potere all’interno dello stesso territorio entreranno fatalmente in conflitto per il sopravvento dell’uno e la distruzione o sottomissione dell’altro. Oggi il territorio si è allargato al mondo intero e la tesi di Tucidide fa riflettere e mette in guardia. Qualche storico dei vostri tempi ha definito questo processo “la trappola di Tucidide”. E in effetti questa trappola è scattata spesso e volentieri nel corso della storia. Dovreste seriamente pensarci.

Quindi la guerra è al centro della storia umana. E, di conseguenza, il denaro. Perché per fare la guerra occorre denaro. Senza ingenti riserve finanziarie non è possibile armare un esercito, pagare i soldati, costruire una flotta, sostenere un assedio. Lo dicono i discorsi pronunciati a Sparta dal re Archidamo e da Pericle ad Atene. In Tucidide quindi la storia è diretta dagli uomini e dalle risorse materiali, non dagli Dei o da altre ragioni.

La guerra del Peloponneso durò 27 anni e fu qualcosa di simile alle vostre guerre mondiali: “il più grande sconvolgimento che abbia interessato i greci e una parte dei barbari e che si sia esteso, per così dire, alla maggior parte dell’umanità”, così infatti la definisce Tucidide. Nella sua opera distingue tre fasi. Nella prima tratta lo scontro tra le due superpotenze, Atene e Sparta, dal 431 al 421 a.C. con i massacri e gli orrori che lo spinsero a riflettere sul sovvertimento di tutti i valori umani causato dalla guerra. Il 421 fu l’anno della pace, stipulata da Nicla, esponente politico e generale ateniese. La pace – più che una pace una tregua continuamente violata da entrambe le parti – durò meno di sette anni.

La seconda fase descrive la sventurata spedizione ateniese in Sicilia, iniziata nel 415 e conclusa nel 413 con la distruzione della flotta ateniese nel porto di Siracusa da parte degli spartani. Finisce così l’equilibrio perseguito da Pericle che vedeva Sparta prevalere con l’esercito e Atene con la flotta. Il mito della potenza marittima ateniese era crollato. Pericle stesso era morto durante la peste di Atene nel 429. Ah, la peste, la peste! Atene, potenza egemone, dominava il mare, ma Sparta, via terra, aveva invaso l'Attica. Atene assediata, la popolazione si rifugiò tra le mura. In quella promiscuità, aggravata dal clima torrido, scoppiò e si diffuse l’epidemia che dimezzò gli ateniesi. Imperversò tra il 430 e il 427 a C. A lungo fu catalogata come pestilenza, anche se gli esperti oggi ne dubitano. Forse fu febbre tifoide, vaiolo o altro. Comunque ebbe le caratteristiche di tutte le epidemie. Anche voi moderni ne sapete qualcosa! Tucidide ne scrisse senza dar luogo ad un pathos emotivo, come, a proposito della peste, fecero Manzoni o Camus. Tuttavia con una precisa documentazione descrisse i sintomi del contagio, la strage dei medici volonterosi, l'ingombro delle masserizie infette, il soffocante affollamento dei tuguri, l’ammucchiarsi dei moribondi accanto ai cadaveri, il disgusto delle fosse comuni. A cui seguì la dissoluzione dell'ordine e dell'autorità, venendo meno sia il reverenziale timore degli dei, lontani e indifferenti, sia il rispetto dei governanti, impotenti ed esausti. “Non esisteva medicina che si potesse applicare e tutti vi soccombevano”. Tucidide scrisse: “si rumoreggiò che i Peloponnesiaci avessero infettato i pozzi, ma io lascerò che coloro che se ne intendono, indaghino le cause di tale infermità; mi basterà dire come essa fu, perché anch'io ne soffrii e vidi gli altri soffrirne”. Refrattario ad ogni tentazione moralistica, Tucidide si dichiara ignaro delle origini del contagio, che non imputa né all'ira degli dei, né ai complotti degli uomini. Una grande lezione. Valida ancor oggi.

Dopo Pericle e dopo la pace di Nicla, che era stato, tutto sommato, un successo politico per Atene, non prevalsero però saggezza ed equilibrio. E questo portò alla caduta della democrazia e al colpo di stato oligarchico con l’affidamento del potere al Consiglio dei Quattrocento. Il Consiglio si chiamava boulé eselezionavai cittadini più influenti. Forse Tucidide stesso ne fece parte. Il Consiglio fu poi destituito e fu istituito un governo guidato dall’Assemblea dei Cinquemila, scelti tra coloro che avevano abbastanza denaro da "giovare alla città, sia coi cavalli, sia cogli scudi". In prevalenza dunque opliti, cioè militari. Un governo che, pur non essendo un'oligarchia, escludeva i nullatenenti dalle cariche pubbliche. Era il 411. Successivamente, nel 410, una rivolta dei marinai portò al ripristino della democrazia. Fu in questo periodo turbolento che ripresero le ostilità con Sparta, culminate appunto con la disastrosa sconfitta della spedizione nelle colonie siciliane guidata da Alcibiade, nipote di Pericle.

Nella terza fase della Guerra del Peloponneso Tucidide illustra la prosecuzione del conflitto fino al 411 a.C. e qui l’opera si interrompe. Tucidide avrebbe avuto intenzione di proseguire e sembra che la parte finale del suo resoconto, quello dal 410 al 404, sia da identificarsi nei libri primo e secondo delle “Elleniche” dello storico ateniese Senofonte, solo per la cronaca figlio di Grillo. Lo sostiene un valente storico dei vostri tempi, Luciano Canfora. Perché la storia è un fluire di dati. La guerra del Peloponneso finisce nel 404 a.C. con la vittoria definitiva di Sparta. Un anno prima, infatti, nel 405, a Egospotami, nell’Ellesponto, il comandante spartano Lisandro aveva distrutto la flotta ateniese. Sparta si era alleata con i persiani ai quali aveva chiesto sostegno dando loro in cambio mano libera sulle poleis dell’Asia Minore, per la cui libertà ottant’anni prima i greci avevano strenuamente combattuto e vinto le due guerre di cui a lungo io, Erodoto, ho scritto e narrato. Ennesima dimostrazione della vanità delle avventure umane. La Persia, a suo tempo sconfitta, riacquisterà così un’influenza decisiva.

Nel 404, Lisandro occupava un’Atene affamata. Fine della storia. Sparta non volle distruggere completamente la città, come chiedevano Tebe e Corinto, ma impose ad Atene condizioni di pace durissime: la distruzione delle lunghe mura, quelle che si estendevano dal porto del Pireo all’Acropoli e avevano garantito il rifornimento e la sicurezza della città, a parte la peste; la consegna di tutte le navi, tranne dodici; l’abbattimento della democrazia e l’instaurazione dell’’oligarchia. L’incarico di redigere nuove leggi fu affidato a un consiglio di trenta membri, guidati dall’intellettuale aristocratico Crizia. Questo consiglio instaurò un regime oligarchico che per la sua durezza fu detto dei Trenta Tiranni. I democratici furono colpiti con condanne a morte, confische, esilio; la cittadinanza fu limitata a tremila persone. La salvezza venne dall’esterno, dalla resistenza. Come sempre. Nel 403 a.C. infatti i democratici, che si erano rifugiati fuori città per sottrarsi alle persecuzioni, rientrarono ad Atene, sconfissero ed esautorarono i tiranni e ristabilirono una democrazia moderata. Alla caduta della tirannide seguì però un clima da “resa dei conti”, nella quale maturò la condanna a morte del grande filosofo Socrate. Era il 399 a.C. Atene non tornò più all’antica potenza, ma riacquistò comunque una certa prosperità commerciale e la capacità di giocare un ruolo politico. Sopratutto non perse, neppure nei momenti più bui, il suo primato artistico e culturale. In quegli anni, infatti, furono attivi in città filosofi come Platone, discepolo di Socrate, commediografi come Aristofane, oratori come Isocrate. Tuttavia il tempo dell’autonomia greca si stava ormai esaurendo. La rivolta delle poleis della Grecia che mal sopportavano la supremazia di Atene, portò alla vittoria di Sparta. La divisione delle città-stato greche porterà al declino della Grecia. Arriverà Alessandro il Grande, re dei macedoni, per fortuna educato da Aristotele, a dominare i greci e conquistare il mondo nei soli 33 anni della sua intensa vita.

Tornando a Tucidide e ricapitolando, i principi generali della storia sono due. In primo luogo la concezione ciclica: la storia ha l’abitudine di ripetersi. È, scrive Tucidide, “possesso perenne”, contiene cioè principi universali, validi per ogni epoca. Perciò bisogna conoscere il passato per poter comprendere il presente e, nei limiti dell'umano, prevedere il futuro. Il secondo principio è quello di comporre un'opera storiografica assolutamente libera da esigenze estetiche, ma basata sul vaglio critico delle fonti. Tucidide infatti circoscrive il suo campo d'azione ad eventi recenti, ricorrendo all'autopsía, l’attestazione personale, che implica la descrizione di eventi vissuti in prima persona. Per questo usa il verbo greco óida, “so per aver visto”. Una visione effettivamente lontana dalla mia, che si avvaleva del mito e del trascendente.

Rispondendo a questi principi, Tucidide si propone di indagare i fatti, comprendendoli in due categorie: le azioni e i discorsi. Le azioni, frutto di decisioni umane, innescano gli eventi e i discorsi, pronunciati dai protagonisti, ne costituiscono la premessa o la conseguenza. Le azioni sono causate da tre motivi, tipici della natura umana: la paura, il desiderio di onore e l'utilità. In nome del primo motivo per istinto di auto conservazione l'uomo è portato a difendersi, mentre per gli altri due ad attaccare, con un unico risultato: la guerra. Perciò si dice che Tucidide si sia distinto dalla logografia greca e abbia gettato le basi per la storiografia moderna, giungendo, senza alcuna interpretazione filosofica o religiosa, alle conclusioni generali attraverso uno studio dettagliato dei particolari. Vale a dire, raggiungere la verità senza aggiunte e deformazioni, senza elementi mitici o dilettevoli. I fatti hanno la loro spiegazione in se stessi. Tucidide scopre la politica come sfera autonoma dell'attività umana. E il movente ultimo che sta alla base della storia è la brama di potere dei singoli stati. Oltretutto, nella narrazione degli eventi, egli mostra di essere un acuto osservatore della psicologia collettiva.

I discorsi a cui Tucidide attribuisce molta importanza sono la dimostrazione che anche lui, nonostante l’impianto scientifico, subì l’influenza della tradizione orale e di ascolto tipica dell’epoca. I discorsi vengono espressi in forma diretta e si mostrano uno strumento necessario per la ricerca e la rappresentazione del vero. Il loro scopo, lontano dalla dialettica sofistica, è quello di rendere il più verosimile possibile, quanto fu effettivamente detto in determinate circostanze. Evitano allo storico di intervenire personalmente nella narrazione, contribuendo così a conferire un'impressione di distacco e imparzialità, in quanto sono gli stessi protagonisti a spiegare i motivi, i retroscena, le cause e le finalità degli avvenimenti. Tuttavia essi sono caratterizzati da una costante tensione interna e dalla ricerca del pathos. Quindi se io, Erodoto, ho seguito gli influssi dell’epos, della narrazione epica, Tucidide, non di meno, ha subito la tensione del pathos. Della passione e del dolore. I discorsi sono dimostrativi, si prestano a considerazioni ideologiche o politiche oppure ne confutano le ragioni. In particolare quelli di Pericle, per commemorare i caduti in guerra, per intessere l'elogio della potenza e della vita culturale di Atene, proclamata "scuola dell'Ellade".

Oh, quando disse: Qui ad Atene noi facciamo così. Il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia! Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti, ma non ignoriamo mai i meriti dell'eccellenza. Siamo liberi, ma coesi, preparati ad affrontare ogni pericolo. Non trascuriamo la cosa pubblica quando attendiamo alle faccende private, ma non ci occupiamo dei pubblici affari per risolvere le questioni private. C’è stato insegnato a rispettare i magistrati e le leggi, proteggendo coloro che ricevono offesa, ma anche a rispettare le leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di buon senso. Chi non si interessa dello Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile e benché la politica pochi siano in grado di farla, tutti ad Atene siamo in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo alla democrazia. Siamo convinti che la felicità sia il frutto della libertà, ma che la libertà sia il frutto del valore. Così ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero. Non era un mondo perfetto, ma queste parole sono indimenticabili. Anche e soprattutto quando c’è chi vorrebbe dimenticarle.

L’uomo, secondo Tucidide, è al centro della storia. Però l'agire umano incontra un ostacolo nell'intervento della Tyche, la Fortuna, intesa come variabile drammaticamente connessa al corso degli eventi terreni. La fallibilità umana è uno degli elementi della natura mortale, "Per natura gli uomini, sia come privati cittadini sia come organismo politico, sono indotti a errare e non esiste legge che glielo possa impedire". La Tyche perciò veglia affinché l'uomo non creda di poter dominare il futuro.

Pur distanziandosi dai filosofi sofisti – che ai nostri tempi andavano per la maggiore e anche ai vostri non scherzano – con loro il pensiero di Tucidide ebbe in comune l’intento paideutico, educativo, indirizzato alla formazione dell’uomo politico al quale sono necessari piani razionali e principi fondati sulla conoscenza. Un importante principio è quello della relatività della nozione di "giusto", affermata dagli Ateniesi ai Meli – intesi come popoli – che chiedono di essere ascoltati sul tema della giustizia. Così rispondono loro gli Ateniesi: “Per quanto possiamo congetturare del mondo degli dei, e per quanto sappiamo con certezza di quello degli uomini, noi crediamo che gli uni e gli altri ubbidiscano a una sola legge, che spinge i più forti a dominare i più deboli. Questa legge non l'abbiamo fatta noi; altri ce l'hanno insegnata, e noi obbediamo. E così fareste voi, se foste al nostro posto”. Tale realismo assoluto e cinico sembra quasi anticipare il pensiero machiavellico ed è scaturito dalla guerra del Peloponneso: una guerra combattuta senza esclusione di colpi. Bisogna anche aggiungere che per Tucidide l'uomo politico deve conoscere le istanze razionali ed emotive che coesistono nell'essere umano e deve saperle conciliare anche con l'elemento della "casualità".

Al di là dell’imparzialità che lo scrittore si impone, il suo pensiero politico può essere compreso da un brano in particolare: le demagogie di Pericle. Demagogia, letteralmente, era l’arte di guidare il popolo; in seguito, e anche già presso noi antichi, decadde fino a diventare cascame della democrazia: la capacità di lusingare il popolo ed esserne lusingati, mediante il bla, bla, bla. E allora sovrani o democratici? Demagogia o democrazia? Popolari o populisti? Nodi da sempre irrisolti. Platone e Aristotele deprecavano la demagogia, la sua retorica ingannevole; Platone, aristocratico intellettuale, fu severo anche con la democrazia, Aristotele ne colse il compromesso. Tucidide, dal canto suo, espresse, anche se discretamente, un apprezzamento dell'opera dello statista ateniese: difatti, di quest'ultimo apprezzava le scelte politiche e l'organizzazione dello Stato, facendo così trasparire il proprio pensiero, moderato e conservatore al tempo stesso. Una sorta di conciliazione tra democrazia popolare ed autorità statale. Tucidide elogia la visione democratica di Pericle e la sua prudenza, la sua scelta di evitare lo scontro campale con gli Spartani. Condanna quindi seccamente la politica seguita dai democratici radicali dopo la sua morte. In questo senso si rivela essere un democratico moderato. Definisce la Costituzione dei Cinquemila del 411 a.C. come la migliore forma di governo mai avuta da Atene. Si trattava di una “giusta” commisurazione di democrazia ed oligarchia, che tuttavia ebbe vita breve, poiché nel 410 fu subito restaurata la democrazia radicale.

E siamo arrivati alla conclusione del ragionamento. Vi ho esposto la mia storia e quella di Tucidide, così che possiate conoscere, paragonare, giudicare. Entrambi descrivemmo il sorgere e l’affermarsi della civiltà greca sui barbari a cui seguì l’inevitabile declino. È della natura umana nascere e morire, ergersi e cadere, mentre la storia prosegue il suo corso. Io ho confidato nel mito, nella gloria e nella trascendenza delle divinità. Tucidide, storico militante e militare, ha messo al centro l’uomo e la sua bramosia, individuando in maniera realistica e cinica, ma non senza ragione, nella guerra il motore degli eventi. A voi il confronto. Che forse è tra l’antico e il moderno, tra il mito e la ragione, tra il sogno e le cose, tra raccontare e scrivere la storia

E, a proposito di scrivere, non si può fare a meno di rilevare che quanto la mia scrittura sia stata volutamente semplice, tanto sia complesso e non sempre di facile lettura lo stile di Tucidide. Con un timbro diverso: a volte clinico e distaccato, altre partecipato e drammatico. Un antico commentatore come Dionigi di Alicarnasso, forse non a caso mio concittadino, apprezzava la mia prosa e non condivideva la fama dello storico ateniese. Ognuno del resto ha i propri estimatori e detrattori e, per quanto mi riguarda, solo gli stolti lodano sé stessi. I posteri giudicheranno. Ma tutti nel corso dei secoli attingeranno a noi, dal tempo dei papiri fino alla carta stampata, dal Medio Evo al Rinascimento. Restiamo nella memoria degli uomini antichi e moderni. Insieme abbiamo fatto la storia, nel senso che l’abbiamo inventata come disciplina, per la “passione” di tanti studenti. Si consolino comunque: anche la geografia, per cui qualche appunto di viaggio pure ho lasciato, non è meno ostica. E poi, sennò, che cosa avremmo avuto al posto della storia, quali materie si sarebbero dovute studiare: sociologia, scienze politiche, archeologia? Saddio!

Io, Erodoto di Alicarnasso, rifletto ancora sui miei limiti, ho tutto il tempo ormai: almeno finché gli uomini vivranno e questo non è poco. Gli Dei, il mito, gli eroi, la gloria, d’accordo, possiamo ridimensionare in parte la mia ispirazione, datarla all’epoca e all’epica in cui vissi, ma non era più ricco, meno cinico e determinista rispetto a Tucidide il mio modo di intendere?

Comunque, alla fine entrambi ci chiediamo se davvero la storia sia maestra di vita, se davvero possa insegnarci a comprendere il presente, facendoci intravedere il futuro. Sembra che gli uomini crescendo imparino un bel niente. La guerra sarà sempre l’unico risultato inevitabile delle controversie? E ogni pace avrà breve durata? Mai cesserà a bramosia di potere e di denaro degli Stati e degli uomini? E fra il rigore spartano e la democrazia ateniese, quale sistema è preferibile? Trovate voi moderni la risposta.

Non ci sono fatti, solo interpretazioni, lo dirà un filosofo controverso, più avanti, in una stagione terribile della storia, forse la peggiore, se c’è un limite al peggio: Friedrich Nietzsche. Ma è vero, oppure ci sono fatti, proprio perché ci sono interpretazioni? La domanda alla fine è sempre questa: esiste in natura la verità? O dobbiamo restare ai fatti e ad essi attenerci e limitarci? Non come storici, ma come cronisti o come i giornalisti dei vostri tempi: i nuovi logografi. E comunque i vostri tempi proprio non li invidio, perché tutto è relativo, ma troppi sono i teorici della post verità. Che avessero ragione i Pitagorici, a cui Platone attinse, quando asserivano che la verità deve essere taciuta e nascosta ai più, seguendo un percorso esoterico, orale e dialogico? Avevano le loro càbale. Una che mi viene a mente è la venerazione per il 40, formato dalla moltiplicazione di 4 per 10, numeri mistici. Erano fissati con i numeri. Sembra che i quaranta giorni del vostro povero Cristo nel deserto, le quaranta ore e perfino la quarantena che morbi e virus impongono al vostro tempo vengano da lì. Dall’interpretazione favolistica di un numero. Allora mito, religione e scienza convivono nel corso degli eventi. Ma voi, poveri contemporanei, sciocchi, andate appesantiti dagli oggetti di cui vi circondate, le cianfrusaglie del presente che vi portate dietro: questa la vostra fatica. Albergate abbarbicati, ma senza radici in chiuse dimore, vivete isolati e inospitali in un solo paese. E, se mi posso permettere ancora, avete perso mito e fede, il senso della storia e quello del progresso. Perché è facile perdersi nel presente, come nel passato.

Quanto a me, Erodoto, storico affabulatore, padre, forse poeta della storia, sul piano personale poco o niente si sa: voglio dire come ho vissuto, se ho sofferto, amato o lasciato progenie. Io ricordo i viaggi: viaggiavo leggero, senza il peso e l’ingombro faticoso dei traslochi, i miei soli bagagli erano le mie memorie e le mie storie. Ricordi, ricordi… Il Medio Oriente, l’Africa, alla ricerca della vita e della conoscenza, i giardini pensili di Babilonia o quel che ne restava, la civiltà dell’Egitto, le piramidi grandiose sotto il sole abbagliante o nelle notti stellate. Le carovane nel deserto e le tende sotto le oasi di palme nei pressi dell’abbeveratoio, mentre il vento muoveva le dune. O sono stati miraggi. E poi il grande Nilo e le sue maree, le barche a vela dorate che ne solcavano la superficie. Il limo e la mezza luna fertile, le piante di papiro. E la vita delle corti e dei villaggi lungo il cammino. Il mare spumeggiante dell’Egeo e quello dello Ionio: conobbi il tremolar della marina! E i tramonti e le albe di eguale, struggente bellezza. Ho amato tutto questo. Ma forse gli storici non parlano di sé. Comunque sia, come padre della storia, ho lasciato molti eredi, anche più capaci, e qualche figlio maldestro. Questo il lascito, oltre la mia vita e la mia storia. Yassas, “vi saluto”.

Erodoto di Alicarnasso

Marco Celati

Pontedera, Febbraio 2022

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Oltre la Treccani e perfino qualche passo dell’inarrivabile – per me – Luciano Canfora, la principale fonte dei testi, riguardanti in qualche modo Erodoto e Tucidide, è Wikipedia che ho saccheggiato e sostengo come posso. Un’enciclopedia digitale senza pubblicità è un fatto prezioso, oltre che utile alla conoscenza. Poi occorrono i “maestri”. Il rammarico è che presto dimenticherò tutto. Avrei dovuto studiare di più e meglio, mezzo secolo fa. “Conobbi il tremolar de la marina” è una pillola dantesca, dal Purgatorio. Queste storie all’acqua di rose sono dedicate ai miei amici storici: che non se nabbiano a male per le mie improvvisate e sprovvedute invasioni di campo! E se proprio se navessero a male, che lo mettano accanto al bene. E mi assolvano. Almeno loro.

Marco Celati

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